Il tempo che ci rimane

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Pintu85
view post Posted on 28/5/2010, 17:37




Recensione comingsoon.it

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Dopo un breve prologo, enigmatico e sintomatico del senso di smarrimento che pervaderà tutto il film, Il tempo che ci rimane si apre nel 1948, l’anno del primo conflitto arabo-israeliano. E quando le forze d’Israele si prendono Nazareth, Fuad Suleiman (il padre del regista, interpretato da Saleh Bakri) non si rassegna e continua a fabbricare armi per la resistenza, andando incontro ai guai. Passano gli anni, e arriviamo all’alba dei 70: Fuad è diventato un uomo di famiglia, ma non ha rinunciato ad appoggiare la resistenza palestinese. Nulla cambia nemmeno una decina d’anni dopo, quando Elia Suleiman è oramai quasi un uomo che si mette nei guai per le sue pubbliche prese di posizione anti-israeliane e che osserva con ammirazione il padre anziano e malato ma ancora determinato. E infine, ai giorni nostri, quando anche la madre di Elia è anziana e malata, il regista entra da protagonista nel suo film con il caratteristico fare silenzioso e surreale, osservando la realtà che vede intorno a lui.

Omaggiando con delicato affetto la sua famiglia e la sua storia personale, Suleiman omaggia la storia della sua terra e del suo popolo. Raccontando delle sue radici personali, racconta di quelle culturali, del suo essere palestinese come uno stato dell’essere più che un dato d’origine geografica. E lo fa utilizzando registri narrativi che, se nella parte iniziale, quella del 1948, si rifanno ad un curioso “realismo”, con il procedere della storia e il passare degli anni virano sempre di più verso i territori propri del regista, quelli dell’assurdo e del non-sense, di un umorismo stralunato che non fa però mai passare in secondo piano le emozioni ma anzi serve a dargli maggiore spessore.

Le scene di Il tempo che ci rimane – spesso e volentieri veri e propri sketch che confermano quanto siano giusti i tanti paralleli fatti tra lo stile di Suleiman e quello di leggende del cinema come Jacques Tati e Buster Keaton – riescono con la loro surrealismo a raccontare sulla Palestina, la sua identità e sui suoi drammi più di tante altre opere improntate ad un drammaticissimo realismo. E se Nazareth mostrata dal film è una città tanto affascinante e “normale” da far venire voglia di visitarla, è perché finalmente qualcuno mostra come quelle terre e quelle città non siano solo i fronti devastati e minacciosi che ci raccontano i telegiornali. Ma non per questo le apparizioni pur bizzarre di pattuglie, carri armati, coprifuochi e intifade sono meno inquietanti.

Perché il cinema dell’assurdo di Suleiman affronta in questo caso anche l’assurdità di una situazione folle e crudele come quella che si vive in Palestina, una situazione che forse è possibile superare solo con un gesto dadaista, come quello compiuto dal regista in una delle scene finali del film, quando afferra un asta e salta il Muro della vergogna israeliano come un olimpionico provetto. Perché, dice il regista con il suo film, barriere e repressioni sono inutili quando, per quanto smarriti e confusi, si portano sempre dentro di sé la memoria e la coscienza della propria identità fisica e culturale.
E il tempo che rimane, forse, è quello dell’attesa che l’altra parte si renda finalmente conto di certi errori che non porteranno mai a nulla.
 
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